Da qualche giorno, accendo la radio e si parla di Gerusalemme. Il telegiornale parla di Gerusalemme. I giornali raccontano Gerusalemme. I riflettori sono puntati sulla città santa e divisa, capitale di tutti o di nessuno. Monte del tempio, spianata delle moschee, metal detectors, proteste, spari, intifada, soldati, sicurezza, libertà. Quando non si parla quasi mai di Gerusalemme, però, poi è difficile raccontarla così, da un momento all’altro.

Il rischio è quello di dimenticare il contesto che questa città si trascina dietro da più di mezzo secolo. E senza quel contesto, non si capisce proprio niente. Allora i fatti entrano nelle orecchie e ne escono poco dopo, privi di riflessione, senza profondità. Sparano alla gente in un posto che si chiama Spianata delle Moschee. Perché è grave? Com’è che ora tutti ne parlano? Così lontano, sfumato, paesaggio da cartolina. Ma dopo aver vissuto a Gerusalemme, voglio raccontare Gerusalemme. La spianata delle moschee, alla fine, per
me era una piazza vicino a casa. Chi veniva a trovarmi lo portavo subito ad ammirare la magnifica cupola d’oro. Mi ricordo quando mio papà commentava: là fuori c’è il caos, il mercato, le urla e le voci. La spianata invece impone rispetto e spiritualità, una sorta di grande piazza bianca e silenziosa. Lo era, prima che la situazione precipitasse. Ecco. Mi è stato chiesto di parlare di Gerusalemme. Ma non voglio e non posso limitarmi semplicemente a ricostruire i numerosi eventi recenti. Ammetto che non sarei in grado di farlo in maniera precisa, quindi imparziale, visto che ormai due mesi fa ho salutato Gerusalemme. Non sono lì, leggo il giornale come possono farlo tutti, da fuori, cercando l’imparzialità ma senza vivere gli eventi in prima persona. Per questo scelgo la soggettività, per provare a raccontare quello che credo stia accadendo alla città che mi ha accolta un anno fa. Che ho imparato a conoscere, non a capire. Dove la tensione è giunta al culmine.

muezzin

Abitare a Gerusalemme significa abituarsi ad una sensazione strana e permanente. Come un odore fastidioso nell’aria, un fischio nelle orecchie, una nausea leggera. È la tensione. Una tensione che non solo si percepisce, ma si vede. Le armi sono ovunque, i soldati pure. Per la strada passeggiano i coloni: camicia aperta, infradito, kalashnikov a tracolla. Ovviamente non solo, ma ci sono. È una tensione che si vive. I posti di blocco, abituarsi al metal detector, l’interrogatorio. Questo accade nella città dei paradossi. Dove qualche mese fa soltanto una parte festeggiava i 50 anni dalla riunificazione. Dove la realtà, ben diversa, si sta manifestando. Gerusalemme Ovest, israeliana, resta nettamente divisa e diversa da Gerusalemme Est, palestinese. In mezzo c’è il nocciolo della Città Vecchia, di cui si parla spesso in questi giorni, lì dove si concentrano i luoghi sacri e spesso anche i massacri. A Gerusalemme Est, Città Vecchia compresa, l’occupazione è quotidianità dal 1967. Israele occupa metà della città in tanti modi diversi, imponendo la propria presenza, giustificandola con la parola “sicurezza”. Sicurezza, sicurezza, sicurezza. L’occupazione di Gerusalemme Est è una violazione palese del diritto internazionale, motivo per cui la città non viene riconosciuta come capitale di Israele.

La città di Gerusalemme è stata tagliata fuori dal muro che imprigiona la Cisgiordania, nonostante anche l’Autorità Palestinese la consideri capitale. Con lei, i suoi abitanti. I palestinesi di Gerusalemme si trovano in un limbo: non sono cittadini israeliani, non sono cittadini palestinesi. Sono solo “residenti di Gerusalemme”, status stampato sul foglio volante che è il loro documento. Chi si trova al di là del muro, cioè la maggioranza dei palestinesi, non ha libero accesso alla città di Gerusalemme. Per accedere alla città è necessario un permesso di Israele. Spesso viene richiesto (e spesso negato) proprio in vista di periodi di festa, per andare a pregare alla Spianata. Ci sono poi quelli che la stampa ama definire “arabi israeliani”, ovvero i palestinesi che, dopo il 1948, sono rimasti in Israele e hanno così ottenuto la cittadinanza. Gli arabi israeliani costituiscono in 20% della popolazione e sono in continuo aumento. Escludendo Gaza, la striscia che resta sempre e comunque tagliata fuori (anche da ogni dibattito), questi sono i palestinesi tra Israele e Palestina. Purtroppo ridotti in categorie a seconda del colore della carta di identità che possiedono. Di confessione, essenzialmente, musulmana.

Perché questa noiosa premessa è necessaria? Troppo spesso, leggendo un titolo qua e là, il rischio è semplificare. Il conflitto israelo-palestinese. Non è mai semplice affermare che un palestinese ha ucciso un israeliano, un israeliano ha ucciso un palestinese. Israeliano ha molte sfumature. E palestinese anche. Ecco perché la tragedia che ha dato inizio alla crisi della Spianata delle Moschee si inserisce in questo contesto in tutta la sua complessità. Il titolo dell’editoriale del giorno dopo firmato Gideon Levy lo esplicita chiaramente: israeliano uccide israeliano. Due cittadini israeliani si attaccano. La frattura è ben più complessa di quel che si può credere. Ed è sociologicamente interna alla società israeliana stessa, geograficamente e politicamente interna a Gerusalemme. Cosa è accaduto, dopo?

Israele decide di vietare l’accesso alla spianata delle moschee, luogo sacro per i musulmani. Quindi i palestinesi. Sulla spianata, la Cupola della Roccia e la moschea di Al-Aqsa. Un luogo simbolo, per tutti. Per la sua bellezza, la cupola è paradossalmente il simbolo anche della Gerusalemme israeliana. Ma la cupola è quell’immagine che ricorre nel mondo arabo-musulmano, terzo luogo per importanza dell’Islam dopo La Mecca e Medina. Mi ricordo il ristorante Al-Quds di Amman e una fotografia della spianata che occupa tutta la parete. Mi ricordo che in Giordania, perfino a Petra, nei bar o al mercato c’era sempre quella cartolina di Gerusalemme. La cupola è la cupola. Israele ha vietato l’accesso alla spianata proprio il venerdì. Quando si vive a Gerusalemme, si sa che il venerdì è un giorno particolare. Il muezzin canta più forte e i musulmani si ritrovano per la preghiera comune. In arabo i giorni della settimana corrispondono più o meno ai numeri. Tranne il venerdì: letteralmente “il giorno dell’assemblea, della preghiera”. Dall’altro lato della città, al tramonto, un corno suona l’inizio dello shabbat ebraico. Il venerdì il mondo si muove: le strade della Città Vecchia direzione spianata, entrando dalla Porta di Damasco o di Erode, sono fiumi di uomini. Dall’altro lato, dalla porta di Jaffa, gli ebrei praticanti scorrono fino al muro del pianto. Così, da Ovest, da Est, tutti si dirigono nella stessa direzione. Assurdo. A separarli, la confessione di appartenenza. Ma soprattutto l’altezza: solo qualche metro. Sotto: gli ebrei al muro del pianto. Uno dei muri, appunto, del Monte del Tempio. Sopra: la Spianata delle Moschee. E proprio questa situazione è spesso motivo di tensione.

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Israele, in pratica, amministra anche la Gerusalemme Est occupata. Comprese le varie entrate alla Spianata delle Moschee, quando in realtà non dovrebbe essere così. Per evitare tensioni tra le due parti – Israele e Palestina – la fondazione islamica del Waqf giordano ha preso in gestione la spianata dal 1967. Insomma, Amman dovrebbe garantire lo status quo. Ma cosa accade, di fatto? A gestire la spianata è Israele. A decidere chi entra e da dove. A decidere di chiudere il terzo luogo più sacro per l’Islam il giorno più sacro per l’Islam dopo un’aggressione-sparatoria tra cittadini israeliani. Punendo, di fatto, una collettività e decidendo di istallare dei metal detectors, decisione a quanto pare ritirata in favore di nuove misure di sicurezza. Premessa sempre fondamentale: condanno ogni attacco violento, che sia contro un israeliano come contro un palestinese. Ma perché la polizia israeliana passeggia sulla spianata? Con questo non giustifico alcuna morte. Ma la presenza israeliana sulla spianata, di fatto, è illegale. Fa parte, una piccola parte, di quell’occupazione che si respira, si vede e si vive. Da qualche tempo, per di più, accadeva questo: ai coloni era permessa l’entrata sulla spianata sotto scorta. Gruppi di giovani si radunavano sulla spianata per cantare e celebrare Israele, scortati dalla polizia. L’ho vissuto in prima persona e l’ho documentato, una delle tante volte, con qualche fotografia. Insomma, la tensione è esplosa nel luogo più sacro e conteso della città. Penso che tante premesse, a Gerusalemme, erano indizi. Piccoli segni di come la situazione della Città Santa sia ormai esasperata. Forse neanche tanto piccoli. Se la stampa occidentale decidesse di raccontare quotidianamente cosa accade a Gerusalemme, ci sarebbe sempre qualcosa di cui parlare. La morte, a Gerusalemme, purtroppo non è una sorpresa ma una triste abitudine. Lì dove ogni metro è conteso, diviso, proprietà bollata di qualcuno. Dove ogni balcone è bandiera, dove la religione si mischia ormai sempre più spesso alla politica. E così peri luoghi sacri, i luoghi del silenzio e della spiritualità, dove gli spari rimbombano.

striscione cupola

Ho comprato un libro, recentemente, dal titolo “Israele e Palestina: che fare?”. Non so se troverò una risposta, tra quelle righe. Non è il primo che leggo. Me lo sono domandata tante volte, nel mio piccolo, ripensando con affetto alla città che mi ha accolta per nove mesi. C’è chi crede che la soluzione a due stati sia fattibile, chi ne preferirebbe uno solo. Chi nemmeno si rende conto dell’esistenza dell’altro. Ognuno con i propri argomenti che diventano solo convinzioni, paure tradotte in teorie, speranze in cartine. Ma per trovare una soluzione che sia almeno decente, non dico corretta, bisogna pensare a che ne sarà di Gerusalemme. La città dove i nodi vengono al pettine, dove tutte le contraddizioni di quella piccola terra dalle mille frontiere, tra il deserto e il mare, sono evidenziate. Dove si versa troppo sangue e non si ha più paura di versarne. Dove chi prende in mano un coltello, magari dopo un post su facebook, è chiamato attentatore ed ha 18 anni, se non 15. È un bambino. O magari una bambina. Dove a fronteggiarlo c’è un ragazzo, magari proprio diciottenne, primo anno di servizio militare, un’arma sproporzionata che ciondola a tracolla senza sicura. Abitano la stessa città, sono coetanei, magari li ho incontrati sul tram, magari si sono incontrati sul tram. E mi chiedo: di chi è la colpa?

 

Arianna Poletti

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Arianna Poletti

Isabella Contu

Francesco Petronella