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Muri che limitano, che chiudono e interrompono. Frontiere inventate dove la natura non ci aveva pensato. Linee tracciate a tavolino su un pezzo di carta che si concretizzano e diventano Muri. Mappe fisiche.

La Turchia ha annunciato da poco la costruzione di un muro lungo il confine con la Siria, ma non stupisce più. La notizia di Calais è di poche settimane fa.

Muri grigi, certamente non colorati e non trasparenti. Eppure immaginiamo una barriera di vetro: ci permetterebbe di scambiare un cenno con il vicino-lontano tutte le mattine. Ma così vedremmo dall’altra parte del muro. Proprio quel muro a Calais sarà coperto di piante: è per mimetizzarlo meglio. Perché non ci piace il cemento, è brutto da vedere.

E così non si vede al di là del muro e non si vuole vedere il muro: è più facile pensare che sia una siepe, un cespuglio cresciuto proprio lì, così velocemente, per caso.

La prima volta che l’ho visto, qui in Israele, ho chiesto all’autista se si trattasse effettivamente del muro. Lui mi ha fatto cenno di sì con la testa. Che domande idiote fanno questi? E ha ragione. La verità è che non sai cosa dire e, pur conoscendo già la risposta, hai bisogno che qualcuno te lo confermi. Esiste davvero. Blocchi di cemento tutti uguali, uno dopo l’altro, corrono lungo la strada. Sopra, il filo spinato. Poi ti ci abitui, lo vedi e basta. Qui, il muro tra Israele e Palestina falcia le colline gialle e interrompe l’orizzonte. Un taglio. Il sole tramonta pochi secondi prima, i balconi di alcune case guardano verso terre al di là del limite imposto. Se il pallone cade di là, probabilmente resta lì, dall’altra parte del muro. E chi potrebbe andare a prenderlo solo tre metri più in là? Per tre ore di coda al check point israeliano, conviene contrattare per un pallone nuovo.

A partire dal 2002, Israele ci sconvolgeva per la scelta radicale di costruire un muro che oggi spacca il paese. Gridavamo all’apartheid, pensavamo al Sud Africa, ci indignavamo. Oggi il continente che ha saputo abbattere Il muro, quello di Berlino, lo riscopre. No, non è diverso in Europa: purtroppo questi muri si assomigliano tutti.

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Ogni muro blocca. Da quando l’arrivo dei migranti è descritto come un’invasione, un flusso “instoppabile”, alcuni stati hanno cominciato a costruire. Cemento e filo spinato in cima. Muri che infatti si somigliano tra loro, europei, e che vogliono fungere da dighe, come quello tra Ungheria e Serbia. Sbucano, come quello tra Bulgaria e Turchia e proprio come a Melilla. Come al Brennero. Come a Calais. Quando nemmeno il muro del deserto e del mare avevano fermato quest’onda che come uno tsunami si abbatte sull’Europa. Lo percepiamo così d’altronde: qualcosa di distruttivo, fuori controllo e inarrestabile. Una massa di migranti.

Muri che vogliono contenere persone che invece non scorrono, camminano. Divisioni che si stigmatizzano o si creano, perché se il muro limita allora separa. C’è un fuori e c’è un dentro, un di qua e un di là, c’è l’Altro. E così anche in Europa enormi barriere si concretizzano.

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Penso che ogni muro incarni l’incapacità di una classe politica che vuole dimostrare di saper agire: un muro di impatto, radicale, che impressioni l’opinione pubblica. Una concreta soluzione lunga qualche chilometro, ben visibile. E così il lancio della patata bollente al di là del filo spinato: badateci voi a loro, ai migranti. E così, muro dopo muro, siamo circondati. L’Ungheria non vuole i migranti e costruisce un muro verso la Serbia, la Bulgaria verso la Turchia. E allora la Turchia verso la Siria. Proprio quella Turchia con cui abbiamo barattato, mascherati dietro uno sconvolgente accordo che vuole stoppare gli arrivi. E intanto muri come cicatrici che, una dopo l’altra, si accumulano nel cuore di quest’ossimoro europeo di un’Unione divisa.

Se determinate scelte politiche portano alla costruzione di barriere fisiche, finché potremo informarci e riuscire a sbirciare di là dal muro, scavalchiamole. Per capire chi è l’altro e perché è lì dietro.

Non costruiamoci altre barriere umane. L’altro, nascosto dietro al muro che cerca di arrampicarsi, farà sempre paura visto da lontano da chi sta dentro. Che non ci vendano un muro come una soluzione, perché non lo è. Che non ce lo vendano come fondamentale, perché è solo sintomo di impotenza davanti ad un problema che prima di essere politico è umano e prima di essere un’emergenza è epocale.

Il muro di Calais ferma i migranti dall’assalto ai camion, è vero. Non nego il fatto che per i camionisti sia un problema. Ma se un paese non è più in grado di dare risposte diverse da un muro, io non temo chi sta dall’altro lato. Temo il paese stesso che non sa provvedere né ai bisogni di quei camionisti né a quelli dei migranti e che, drasticamente, mette un tappo. Che salterà.

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Quando ho visto il muro tra Israele e Palestina mi sono fermata a pensarci. E ho capito che finché lo stato israeliano vieta ai suoi cittadini di mettere piede nei Territori Palestinesi, gli israeliani ne avranno sempre paura e crederanno in quel muro. Ma le barriere non costruiscono niente, non proteggono ne avvantaggiano nessuno. E soprattutto non fermano. Qui ci sono bambini che ogni giorno viaggiano ancora su un autobus tra Gerusalemme e Ramallah per andare a scuola, affrontando ogni giorno ore di code al check-point, arrivando in ritardo per il compito e rischiando un brutto voto. In Europa, ci sarà sempre un modo di aggirare quei chilometri di barriere che non fermano i migranti. Intanto, mentre il mondo si muove, noi ci stiamo solo chiudendo dentro con la scusa che non sappiamo cosa c’è fuori.

Arianna Poletti